Laogai, tra censura e stereotipo

Recentemente Roberto Saviano , durante il programma televisivo “Quello che non ho”, ha voluto parlare di una delle forme punitive più usate dal Partito comunista cinese: il laogai, ossia campi di lavoro forzato. In studio è stato invitato Harry Wu, un cinese cittadino statunitense, che ha reso la realtà dei laogai nota al pubblico mondiale. Mi sembra opportuno cogliere questo spunto di riflessione lanciato da Saviano per spendere qualche parola in più sull’argomento.

Il tema del lavoro coatto in Cina è sentito in occidente per due motivi principali: in primo luogo perché manifesta la mancanza di rispetto e di aderenza da parte di una potenza mondiale a valori democratici e diritti umani imprescindibili, teorizzati, attuati e difesi da noi occidentali; in secondo luogo perché lavoro coatto significa manodopera a costo zero, che a sua volta si traduce in prezzi bassissimi, concorrenza sleale e la percezione, sempre più forte in questo momento di crisi, che questa crisi sia dovuta anche ad una sfrenata logica del profitto per la quale sfruttare varie forme di lavoro coatto in quei paesi dove esso è permesso è non solo lecito, ma anche infinitamente remunerativo, così remunerativo che qualunque scrupolo di coscienza o rispetto dei diritti umani viene più o meno consapevolmente dimenticato.

Harry Wu era un giovane studente quando fu accusato di essere un controrivoluzionario durante la Campagna contro la Destra ed inviato in un campo di rieducazione attraverso il lavoro, dove vi rimase per diciannove anni.

Il termine laogai è la contrazione di laodong gaizao, ossia riforma attraverso il lavoro, ed indica i campi di lavoro, localizzati nelle zone più remote del paese, dove venivano inviati i prigionieri, soprattutto politici, per riformare il loro pensiero. Durante la Campagna contro la destra e la successiva Rivoluzione Culturale i laogai si riempirono degli intellettuali ritenuti ostili al regime, condannati ai lavori forzati, in condizioni di vita al limite della sopravvivenza. Le riforme di apertura degli anni ’80 e la fine del maoismo non hanno coinciso con la chiusura di questi luoghi di coercizione, al contrario essi ospitano ancora personaggi scomodi , dissidenti, esponenti di spicco di minoranze etniche o religiose. Molti denunciano infatti l’incarcerazione di attivisti filo-tibetani in seguito alle manifestazioni del 2008, Liu Xiaobo, premio nobel per la pace, ha pagato il suo impegno nella causa dei diritti umani con la prigionia in uno di questi campi.

Harry wu venne riabilitato nel 1979, poco dopo ricevette l’invito della Berkley University e si trasferì in America. Da qui gli è stato possibile far conoscere la realtà del laogai in occidente. Fin qui niente di strano: siamo ormai abituati ai racconti di una Cina, presente e passata, da parte di chi c’era ed è andato via. La presenza di Harry Wu in trasmissione, cittadino americano, che parla in inglese, dà l’idea che la sua storia sia un argomento tabù, impossibile da trattare se non nelle libere democrazie occidentali. Tuttavia la sua storia mi fa venire in mente altre storie, ad essa molto simili, raccolte da altri cinesi che hanno parlato dei laogai  in cinese su mezzi di comunicazione cinesi per un pubblico cinese.

Uno di questi è Yang Xianhui, che nel 2000 ha pubblicato sulla Shanghai Literature il primo di una raccolta di racconti, dal titolo Jiabiangou jishi. Il nucleo centrale è Jiabiangou, un campo di lavoro situato nel deserto del Gobi, nella provincia del Gansu. Animato da grande zelo rivoluzionario, l’autore si arruolò giovanissimo e prestò servizio in una fattoria militare nel deserto della regione, dove conobbe ex detenuti del campo di Jiabiangou. Solo dopo  molti anni decise di intervistarli, per poi adattare le interviste alla forma del racconto. La raccolta di racconti, i cui adattamenti furono forse motivati dall’esigenza di far apparire come opera letteraria quella che in realtà nasceva come un’inchiesta, può essere ritenuta un esempio di letteratura documentarista, in quanto testimonianza diretta di una realtà passata, che trova la sua ragion d’essere nel recupero della memoria storica e sociale di questo paese, attraverso le storie delle persone comuni e della loro vita quotidiana. La raccolta di racconti, oggi tradotta anche in italiano con il titolo “Donna di Shanghai”, ha fatto da sceneggiatura ad un film: “the ditch” di Wang Bing, presentato al Festival di Venezia nel 2010.

Com’è possibile che Yang Xianhui non abbia mai avuto problemi con la censura nonostante quest’opera, in cui mette chiaramente in discussione l’operato del partito in quegli anni? In primo luogo Yang Xianhui parla di un periodo della storia cinese ormai concluso, il partito si fece carico delle sue responsabilità, attribuendo determinate scelte politiche a frange definite di estrema sinistra che presero il controllo del paese ed intendendo gli sviluppi di determinati movimenti di massa come conseguenti esasperazioni di situazioni sfuggite al controllo centrale. Le riabilitazioni dei prigionieri politici fu un modo per accantonare i fatti dopo il mea culpa generale. In secondo luogo è forse il caso di demistificare il ruolo della censura in Cina e di sostituire l’immagine di un paese monolitico in cui qualunque forma di espressione indipendente viene repressa con quella di un paese più maturo, in cui il dialogo sociale e culturale non è ritenuto un pericolo dall’élite di governo, ma un mezzo per saggiare gli animi della popolazione e agire di conseguenza. Con questo non intendo negare la presenza di un forte e capillare sistema di controllo sulla popolazione, sulle sue attività sociali e sulle sue produzioni culturali, ma forse andrebbero chiarite meglio le modalità del suo operato, oggi molto più complesso e ben congeniato, talvolta disposto a lasciare degli spazi liberi in cui dar sfogo alle richieste variamente espresse dal popolo, talvolta capace di guidare queste espressioni popolari e incanalarle in un dato percorso attraverso una manipolazione dell’informazione e dell’opinione pubblica, talvolta pronto a chiudere queste valvole di sfogo e procedere a nuovi giri di vite, seguendo lo stesso modello di pragmatismo de-ideologizzato dimostratosi così vincente nella storia contemporanea del paese.

 

2 Comments on "Laogai, tra censura e stereotipo"

  1. Ma Yang Xianhui, alla fine, come parla del laogai? cosa dice? Immagino ne dia una visione più sfaccettata e meno politicizzata di quella che può dare Saviano, da qui. Ma ne dà un’immagine in qualche modo “positiva”? Com’è che gli intervistati commentano la loro permanenza? C’è della nostalgia (dovuta, probabilmente, anche al lavaggio del cervello) o una totale condanna?

  2. Ci sono varie cose da dire: in primo luogo Yang Xianhui ne dà una visione profondamente diversa, più sfaccettata ma soprattutto dal taglio molto più personale: il suo è un tentativo di ricostruzione storica partendo dalle testimonianze dei singoli, qualunque tentativo di critica politica è presente solo in quanto si tratta di un argomento politicamente delicato. Certo non si può dire neanche che Yang si impegna a fornire un’immagine positiva, quanto meno dell’ideologia alla base del laogai, di certo non osanna il laogai quale paradiso socialista creato durante il periodo maoista. La sua prosa è imparziale, priva di giudizi di valore, l’autore non si schiera politicamente, forse scendendo anche lui al solito compromesso per il quale và operata una certa autocensura se si vuole superare indenni quella statale. Non c’è nostalgia di un passato che, al contrario, viene riportato alla luce senza veli, dalla carestia dei primi anni ’60, al duro lavoro, alle condizioni di vita precarie. Si evita di attribuire responsabilità, quello è un lavoro che l’autore rimanda ad altri, lui si limita a ricostruire parti di storia mancanti attraverso l’analisi di documenti viventi, ossia delle vite di coloro che quella storia l’hanno vissuta. Questa operazione di ricostruzione permette di recuperare identità sociale e politica ai protagonisti che per la prima volta si trovano catapultati nel ruolo di protagonisti e allo stesso tempo narratori della loro stessa storia.

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