La Cina dei nuovi passaporti cinesi

E’ di qualche settimana fa la notizia che sulle pagine dei nuovi passaporti cinesi è stata stampata una mappa “allargata” del territorio della Repubblica Popolare, all’interno della quale sono stati inseriti territori al confine con l’India (Arunachal Pradesh e Aksai Chin), numerose isole nel Mar cinese meridionale e, inutile dirlo, l’intera isola di Taiwan.

Innumerevoli le critiche provenienti da tutti i paesi interessati: Filippine, Malesia, Vietnam, India, Taiwan hanno condannato in massa la decisione di Pechino. I passaporti, spiega il portavoce del ministero degli esteri cinese, seguono gli standard internazionali dell’aviazione e la Cina non ha alcuna intenzione di usare questi ultimi per andare contro una qualunque nazione, anzi vuole comunicare con le nazioni vicine e continuare a perseguire uno sviluppo salutare. Il messaggio è volto a tranquillizzare i vicini del gigante asiatico, d’altronde la classica cartina rappresentante il territorio nazionale che circola in Cina ha da sempre compreso queste aree, senza arrecare danni o fastidi a nessuno, ma è pur vero che essa non è mai stata stampata su dei passaporti prima d’oggi. Il punto è che la sovranità o le pretese di sovranità su alcuni territori sono liberamente manifestate o manifestabili in territorio nazionale, tuttavia la stampa su dei passaporti implica che ci si aspetti un timbro ufficiale di convalida al momento dell’arrivo in un determinato paese. Ed è questo che ha fatto infuriare gli stati che contendono, al pari della Cina, i territori inseriti nella mappa: Manila si rifiuta di porre il suo timbro sui passaporti cinesi così modificati, apponendo il timbro di ingresso nel paese solo su una documentazione extra fornita dai loro uffici; Delhi replica con la sua versione personale della mappa, stampata sui visti dei cittadini cinesi per l’India; Taiwan e il Vietnam si rifiutano di riconoscere i passaporti. Pechino fa spallucce e consiglia di non attribuire significati eccessivi ad una semplice mappa.

Il portavoce del dipartimento di stato americano definisce i passaporti cinesi legali, in quanto rispettano le norme internazionali in merito, accordando ai cinesi la libertà giuridica di inserire nelle loro mappe i territori rivendicati e lasciando all’ASEAN il compito di discutere della legittimità delle singole rivendicazioni territoriali. Insomma un’immagine su di un passaporto non cambia niente, anche se questa mossa non può che essere percepita come una minaccia, l’ennesimo esempio di una Cina che fa la voce sempre più grossa nell’ambito della politica internazionale. E di certo è difficile credere nella ricerca di una convivenza “armoniosa” con i paesi limitrofi, in particolar modo dopo quest’anno, caratterizzato da dispute navali con le Filippine e dalla recente guerra diplomatica con i Giapponesi per la supremazia nell’arcipelago Diaoyu, il cui territorio stranamente non è stato inserito tra quelli della mappa incriminata.

Ciò che forse intimorisce i paesi interessati sono gli effetti a lungo termine di questo episodio: il significato politico che potrebbero acquisire i timbri apposti sui passaporti, l’immagine diffusa tra i cinesi, di un territorio nazionale più vasto di quello che è in realtà, in ultimo implicazioni e sviluppi futuri a cui la propagazione di quest’immagine può portare. Sappiamo che i cinesi non lasciano nulla al caso e questa stramba decisione di Pechino diventa difficile da spiegare, se non la si contestualizza. Non bisogna dimenticare, infatti, che molti di questi territori, facevano parte di quei paesi, come la Corea, l’Annam (l’attuale Vietnam), il Siam (Thailandia), Burma (Myanmar), il Nepal, un tempo tributari dell’impero celeste. Il pagamento del tributo era una forma istituzionalizzata di riconoscimento della sovranità della Cina, non implicava nessuna forma di controllo amministrativo o di interferenza da parte della potenza egemone. Quella della Cina era una sovranità semplicemente culturale: la Cina era l’unica vera civiltà, il cui sovrano era il figlio del cielo, governava tramite il mandato celeste, di cui era insignito grazie alle sue virtù morali. I non-cinesi potevano entrare a far parte di questo complesso sistema culturale, potevano anche governarlo, qualora fossero stati disposti ad accettare ed esercitare le regole del confucianesimo, ideologia attorno alla quale si fonda la civiltà cinese. Sentimenti di appartenenza erano sentiti non tanto verso lo stato  (l’impero cinese non era niente di simile, il concetto di stato-nazione nasce e si sviluppa in Europea e resta completamente estraneo all’Asia), lo stesso sistema del tributo implicava il rifiuto da parte della Cina a riconoscere una molteplicità di stati formalmente eguali tra loro. Essi erano sentimenti di appartenenza ad un’identità culturale, basata su un’eredità storica comune e sull’accettazione di credenze condivise: una “self-image” peculiare, quella cinese, sviluppatasi nel corso dei due millenni in seguito all’unificazione ad opera della dinastia Qin. Difficile parlare di un vero e proprio nazionalismo, quello cinese fu più un modello “culturalista”, che postulò una super-nazione, una comunità definita da principi validi e riconosciuti, il cui centro politico era stabilito in Cina, formata da una stragrande maggioranza di etnia Han. Il passaggio dall’impero alla repubblica fu relativamente facile perché si passò dal “culturalismo” (inteso come sentimenti di lealtà ed appartenenza alla cultura cinese, da sempre identificata con quella Han)  ad un nazionalismo etnico, inteso come sentimento di difesa politica della cultura- che diventò stato- cinese. Quando i nazionalisti e poi i comunisti presero il potere, stabilirono la sovranità sui territori dell’impero cinese, senza considerare la non cinesità un problema: l’impero divenne stato e il culturalismo divenne nazionalismo statale. Ma a questo non fece seguito un senso comune di “nazione” tra tutti i suoi cittadini, basta pensare ai numerosi nazionalismi etnici (dai mongoli agli uiguri ai tibetani, per citare solo le più note etnie tra le 51 riconosciute nel paese) che fanno della Cina un paese multi-etnico. Questo passaggio è coinciso agli occhi dei cinesi come un passaggio di sovranità: la Cina ha il diritto di rivendicare i territori su cui in passato estendeva la propria influenza, compresi i paesi ex-tributari, i quali invece rinnegano qualunque pretesa di sovranità  dello stato cinese su territori geograficamente appartenenti ad essi, in nome di una pratica tributaria retrograda, che non trova legittimazioni negli assetti geo-politici contemporanei.

La trovata cinese, apparentemente un’inutile istigazione che mina gli attuali accordi diplomatici tra i paesi dell’area, può trovare la sua ragion d’essere in primo luogo nell’atteggiamento in politica estera sempre meno “soft”, dovuto alla coscienza del proprio importante ruolo economico e politico mondiale; in secondo luogo alla credenza, forse inconsapevole, di poter esercitare effettivamente dei diritti in quelle aree, in nome di una sentita superiorità culturale che, sebbene sia venuto meno il sistema politico che ne garantiva l’imperturbabilità, non ha cessato di esistere.

Il dragone muove all’attacco delle tigri, senza prendere in considerazione il pericolo che queste tigri possano unirsi e a loro volta, ancora un volta, minacciare il dragone.

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