Parola d’ordine “Integrazione”

Vivere a Prato ti dona l’onirica sensazione di viaggiare per il mondo senza spostarti da casa. Perché questa città alle porte di Firenze è una delle città più multietniche d’Europa e con una delle comunità cinesi più numerose d’Italia (circa il 10% di una popolazione di 191.424 abitanti).

E la città diventa un laboratorio nazionale dove la parola d’ordine è “integrazione“.

Di recente, in occasione del Pisa Film Festival, ho avuto modo di assistere alla proiezione di un documentario di Massimo Luconi dal titolo “L’occupazione cinese. Made in Prato“. Una voce (dal marcato accento del luogo) ci introduce al mondo del tessile della città: si tratta di un giovane cinese, nato e cresciuto a Prato, a capo di una ditta di pronto moda, come lo sono in tanti qui. Attraverso interviste e testimonianze di esponenti di entrambe le comunità cinese e italiana, Luconi esplora quei settori economici e sociali, come le industrie  tessili, associazioni, centri culturali e scuole, laddove la convivenza quotidiana ha portato alla conoscenza reciproca e talvolta all’accettazione dell’altro, al di là degli stereotipi: il quadro tracciato è piuttosto ottimistico e si ha l’idea che Prato sia un modello ben riuscito di integrazione tra le due comunità.

Passeggiando per Prato si ha però una sensazione diversa: è evidente che la città è divisa in quartieri dove si sono riunite le varie comunità, i pochi italiani rimasti nel centro storico vi parlerebbero di come gli immigrati hanno portato via il lavoro, della loro delinquenza, della loro sporcizia.

All’apertura dell’ufficio in cui lavoro, ufficio bilingue con personale multietnico , un putiferio mediatico è stato scatenato dalla stampa locale, che ha liquidato l’ufficio come monoetnico, ossia solo per la clientela cinese. Molti italiani l’hanno percepito come un tradimento, davvero in pochi hanno capito la necessità di creare uno spazio in cui la comunicazione con l’ “altro” avviene nella loro stessa lingua, in modo che ad una maggior chiarezza esplicativa faccia seguito una conoscenza e  una conseguenziale responsabilizzazione da parte loro. Perché negli ultimi anni si sta facendo sentire la necessità di un’integrazione più profonda, in cui gli immigrati non si limitino a convivere pacificamente con gli autoctoni, ma si trasformino in parte attiva nella vita economica, politica, sociale e culturale del luogo.

Chinapolis ha già precedentemente presentato l’iniziativa Facewall, portata avanti da Compost Prato: 100 foto diverse vengono stampate su 10.000 bandiere e distribuite per la città. I soggetti di queste foto sono due persone di etnie diverse che condividono un legame sociale o personale di qualunque tipo. La bandiera va poi appesa fuori casa, perché l’integrazione va esposta al sole. Come si legge sul sito di Facewall:

“FACEWALL vuole rendere più visibile ciò che si vede ancora poco, ossia la normalità di relazione e scambio che molti pratesi e “stranieri”, in particolare cinesi, hanno in tutti i settori della vita pubblica e privata. Chi mette la propria faccia sulle bandiere appese ai muri della città non sta nell’ombra, entra nella vita pubblica, va verso le regole, si “manifesta”, si fa riconoscere dagli altri come cittadino.”

Il progetto in realtà va ben oltre: l’idea è di suggerire alla città di cominciare a considerare la sua multietnicità come una risorsa ed investire su di essa, per il suo potenziale inesplorato di antidoto alla crisi e motore di sviluppo.

Com’è possibile ciò? Com’è possibile far confluire due culture, due modi di vivere, due identità diametralmente opposte?

La risposta ce la dà un ragazzo, ormai piuttosto famoso, che da tempo è molto impegnato nel tema dell’integrazione sino-italiana, si tratta di Shi Yang Shi. L’attore cinese, cittadino italiano dal 2006, sceglie Prato come sede della prima nazionale del suo nuovo spettacolo teatrale dal titolo Tongmen-g (铜门 La porta di bronzo), prodotto da Compost Prato, per la regia di Cristina Pezzoli, primo spettacolo teatrale in doppia lingua per un pubblico misto.

Yang ripercorre la storia della sua famiglia, originaria dello Shangdong, a partire dalla guerra civile nei primi anni del novecento fino ad arrivare a lui, al suo arrivo in Italia,  agli anni di duro lavoro e delle difficoltà economiche, alla volontà di inserimento, fino al riscatto sociale, l’università e il coronamento delle sue passioni con il teatro. Ricordare gli antenati ha la doppia funzione di permettere a lui stesso di scoprire le sue radici e a noi di assaggiare un pizzico della complessa storia contemporanea della Cina; ripercorrere la sua vita invece ci lascia intravedere le enormi difficoltà a cui va incontro chi come lui ha abbandonato tutto in nome di un sogno, allo stesso tempo permette ai suoi connazionali di identificarsi nel suo personaggio e di prenderlo da esempio. Lo spettacolo si chiude con una scena che più di tutte ingloba i molteplici significati dello spettacolo: lui regge tutti gli oggetti simbolo della sua vita e della sua tradizione familiare, in bilico sulle sue spalle.  Quello che Yang vuole evidenziare maggiormente è la possibilità effettiva di creare delle identità ambivalenti, capaci di fungere da ponte tra realtà completamente diverse e di sintetizzare queste realtà in identità uniche, tanto più ricche perchè complesse.

Durante lo spettavolo Yang fa l’esempio della pratica giapponese del Kintsugi: un oggetto rotto viene colmato d’oro per integrare le crepe e ridare unità all’oggetto, perché laddove c’è rottura ci può essere ricomposizione.

Dall’esperienza può nascere una forma più completa di bellezza.

 

L’immagine di copertina è gentilmente offerta da Ilaria Costanzo, per FACEWALL PRATO

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