Nove Birre se ne va in Cina

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Jiupi mi chiamo io. Nove Birre è il nome mio.

È cosa nota che, a casa del Gigante Giallo, ci si debba inventare un nome, cercare una nuova identità onomastica, meglio se conforme al
proprio ego, onde evitare imbarazzanti storpiature fonetiche dettate dall’impronunciabilità
della propria lingua in terra straniera. Fin da subito ho deciso che, né “Foglia Verde” né
“Piccolo Giovane Bambù” dovessero appartenermi: nessuna presunzione di superiorità
intellettuale, nessuna pretesa di orgoglio “occidentalista”, semplicemente il rifiuto di un
esotismo fintamente “radical”. Distante incalcolabili miglia dalla semiotica della mia
domesticità, un più semplice e banale, nonché risibile, Jiupi, vicino al familiare “Giuppi”, ha
risolto ogni dilemma, riempito lo scompenso orario, rimpicciolito una sconfinata prateria di
chilometri altrimenti impercorribili, facendomi sentire a casa, lontano da casa. Così è iniziata
la mia Cina, la Cina di Jiupi.
 
A casa, lontano da casa, in una umida città del Zhejiang, provincia sud-orientale cinese, a due
ore di treno da Hangzhou, terribile paradiso in terra assediato da luciferini turisti assetati di
souvenir, e a tre ore di treno da Shanghai, metropoli avveniristica dove il moderno snob tutto
slanciato fa a botte a suon di ferraglie e impalcature con il vecchio nano, ammuffito,
nauseabondo. Jinhua conta un milione di abitanti, in uno dei paesi più popolosi al mondo, lì
dove si corre il rischio di non rimanere mai soli, dove ci si arrende alla proverbiale verità del
“People mountain People sea” (人山人海). Eppure Jinhua è vuota: nessun aperitivo culturale,
solo un patetico museo del Prosciutto Crudo, l’orgoglio di Prosciuttoville.
 
Difficile sopravvivere in una simile città dormitorio, dove si mangia, si produce e si canta al karaoke,
meglio dopo stomachevoli spiedinate a base di carni di dubbia provenienza e salsine poco
raccomandabili. L’iperattività e l’inarrestabile inarrestabilità si scontrano con una realtà
cementificata, congelata in una mediocrità che evolve, orizzontalmente, verso la costruzione
del prossimo centro commerciale, imbottito di luci, ansiogeno, affamatore di coscienze,
sfamatore di incoscienti pochezze. Ma lamentarsi non serve e criticare non paga: così,
un’elementare filosofia senza sofismi arriva a soccorrere l’ottimismo affogato, l’entusiasmo
soffocato, l’Ulisse negato. Trovare del buono in ogni piccola cosa diventa l’imperativo
quotidiano, la causalità di ogni fenomeno di movimento a cui riconoscere il primato salvifico.
Era conseguenza ovvia, naturale, che la mia macchina fotografica diventasse lo strumento
d’azione, il cercatore di pepite d’oro, la lente con cui focalizzare il buono di ogni piccola cosa,
appunto. Alcuni l’hanno considerato un modo per mettersi in contatto col posto, e
probabilmente non si sono sbagliati affatto. Ho cominciato a guardare negli occhi, a
intrappolare gli sguardi e scolpire gli istanti, a paralizzare le azioni e a traslitterare gli odori,
per analizzarne la causalità, ricercarne l’originalità, comprenderne l’entità e assimilarne la
familiarità.
Una ricerca nevrotica, forse, invadente direi, come quando le divinità mi hanno
maledetto al tempio di Huang Daxian, immortale taoista. Era un’assolata domenica di
ottobre, una di quelle domeniche con la luce e l’odore di ogni normale domenica, e alcuni
amici cinesi mi avevano invitato a “scalare la montagna”, ad arrivare sulla cima smussata di
una collinetta per onorare l’opulento tutto pappa e ciccia. Armato di macchina fotografica e
con la borsa riempita di baozi, deliziosi fagottini al vapore ripieni, ho osato offendere le
divinità perché tutto preso dalla smania di scattare foto in un tempio taoista, cosa poco
gradita agli eleganti monaci vestiti da un minimale tessuto di canapa bianco e nero, con ai
piedi le storiche calzature della vecchia Pechino, le scarpe nere di pezza. Un imbarazzante
rimprovero ha chiuso l’obiettivo ma mi ha anche messo nelle tasche un amuleto, perché le
divinità erano arrabbiate e ne avrei avuto bisogno, farfugliò il monaco con una litania
benaugurante. 10750138_10152510183530920_4735395994347338687_o
Niente di assurdo, tuttavia, rispetto a quanto mi è successo a Suzhou, il secondo paradiso in
terra, la “Venezia d’Oriente”, dicono. Novembre: una delle prime fughe rianimatorie dalla
claustrofobia di Jinhua, una breve boccata d’aria prima di ritornare al campus per una di
quelle detestabili attività, organizzate dall’Ufficio per gli studenti internazionali, nelle quali
mi coinvolgono con ricatto, pena la mancata corresponsione dei 1700 yuan mensili. Avrei
dovuto cucinare un piatto italiano per la festa di cucina internazionale dell’università e, non
avendo tempo di acquistare gli ingredienti a Jinhua per via della veloce fuga, decido di
acquistarli a Suzhou.

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Suzhou, la stessa Suzhou di una espressione a otto caratteri decisamente rinomata, un 俗语
súyǔ (modo di dire, proverbio) che recita “天上天堂地下苏杭” (Tiānshàng tiāntáng, dìxià
Sū Háng) ovvero “In Cielo il Paradiso, in terra Suzhou e Hangzhou”. Suzhou è, senza alcun
dubbio, una meta facile per chi è a Shanghai o nelle sue vicinanze. Facile, sì, quella facilità
che non vuol dire poco in un paese in cui le distanze sono sconfinate e 15, 16 o 17 ore di
treno non sono poi così tante. Suzhou pullula di giardini museo, merito di un passato felice
avvolto in sete preziose, punteggiato di corporazioni di artigiani dediti alla xilografia, che
presto attirò nobili, letterati e pittori. Un passato tanto felice da aver lasciato in eredità a
Suzhou due dei quattro giardini più belli e famosi di tutta la Cina, ovvero il Giardino
dell’Amministratore Umile (拙政园 Zhuōzhèng yuán) e il Giardino del Dolce Oziare (留园 Liú
Yuán): microcosmi perfetti, la quintessenza di quell’armonia con la natura che i Cinesi hanno
sempre perseguito e che oggi la terribile e ossimorica politica del capitalismo socialista ha
obliato.

 

Affamato, cerco di farmi strada tra le orde barbariche di turisti cinesi saziati da ridicoli
aneddoti sulle forme degli alberi nei giardini, e compro una decina di 南瓜饼 nánguābǐng
(frittelle di zucca) da una paffuta zietta sul ciglio del canale, con gli zigomi così rossi da
scaldarmi il petto. Con la lingua scottata, le mani unte e residui di sesamo sulle labbra,
continuo la mia passeggiata tra i vicoli fatiscenti di una Suzhou un po’ nauseabonda, 10553959_10152510160955920_869570990548809559_o
ammantata di soffice muschio, con basse casupole bianche, che vive l’ordinarietà di un
venerdì come tanti altri. I vecchietti sono tutti presi dai loro quotidiani esercizi fisici:
camminano all’indietro per migliorare l’equilibrio e battono le mani per riattivare la
circolazione; i garzoni delle botteghe sfrecciano su tricicli super accessoriati, quelli carichi di
bottiglioni d’acqua, questi di spinaci e altro verde commestibile.
Intanto, bagnato da una pioggia troppo poco contenuta, chiedo a delle simpatiche vecchiette
di indicarmi un buon fruttivendolo dove comprare melanzane e pomodorini ciliegino per la
mia esibizione culinaria: una di queste, con fare intraprendente, decide di accompagnarmi e,
impegnata a scegliere le melanzane più lucide e i pomodorini più perfetti, mi fa il terzo
grado insinuando abilmente tra un affanno e l’altro le lodi di una figlia banchiera
ventottenne tragicamente non ancora sposata. Indovino tra le sue parole le intenzioni di una
mezzana contemporanea e, mettendola al corrente del mio treno di ritorno programmato in
serata, cerco di accomiatarmi da lei non prima di averle chiesto indicazioni per Shangtang
Jie.

Solo due sono le strade di Suzhou che la degnano ancora dell’appellativo di “Venezia
d’Oriente”, Pingfang Jie e Shangtang Jie, appunto. Il resto, fatta eccezione per i giardini, è
rimasto archiviato nei racconti fantastici di Pu Songling, litografato su storie antiche di un
passato senza cemento, o abbandonato al proliferare delle muffe. La mezzana riesce a farmi
caricare su un risciò che mi porta a Shangtang Jie, paga quaranta yuan, si annota il mio
numero di telefono, e mi sgancia cento yuan, perchè è pensionata e vive bene e, quindi, può
permetterselo. Un telone rosso parapioggia disegna un bozzolo intorno a me, sono un insetto
nel suo esoscheletro: fuori la pioggia inclemente non ha alcuna pietà del malcapitato
pedalatore e in tasca ho cento yuan in più.

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Pingfang Jie e Shangtang Jie mi salutano tinte di rosso, affollate di ombrelli e macchine
fotografiche. Finisce qui la mia Suzhou, non prima di avermi regalato un’ultima,
straordinaria avventura che poi vi racconterò.

di Giuseppe Lomuscio

 

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