Cinque più cinque

 

Questo blog si apre con un articolo a proposito di un nuovo documentario cinese, si tratta di “Five plus five” (titolo originale Wu jia wu 五加五), frutto della collaborazione tra lo scrittore cinese Xu Xing e il documentarista italiano Andrea Cavazzuti. La proiezione della pellicola presso l’ università “L’Orientale”, curata dall’Istituto Confucio di Napoli, e il dibattito successivo sono stati occasione di riflessione su una delle forme d’arte più rappresentative della realtà e su uno dei generi più vitali della sfera artistica cinese: il cinema documentario.

La pellicola è stata ultimata nel 2011 e narra di un tassista abusivo pechinese, Lao Jin. Come tanti, Lao Jin lascia la campagna per tentare la fortuna nella capitale. Sprovvisto di una licenza ufficiale, grazie all’aiuto di alcuni amici riesce a procurarsi un’auto, la sua cordialità e disponibilità fanno il resto: gli basta poco per diventare una vera celebrità nel nuovo distretto artistico di Song Zhuang, uno spazio designato dal governo per incentivare la produzione artistica, di fatto un microcosmo in cui vivono, operano, si confrontano i protagonisti della scena artistica contemporanea cinese.

Giorno dopo giorno, tra un giro in auto, due chiacchiere, un passaggio ad un cliente, un festival, impariamo a conoscere Lao Jin: la sua simpatia gli permette di avvicinare le particolari personalità degli artisti, attraverso la sua logorrea impariamo a decifrarne il genuino pensiero, insieme alla sua vitalità partecipiamo anche noi agli eventi di cui si trova suo malgrado partecipe. Lao Jin entra così nel mondo dell’arte d’avanguardia cinese, ne conosce i personaggi e le loro storie, impara ad apprezzarne le opere, partecipa agli eventi, pian piano diventa una parte indispensabile di quel mondo.

La telecamera è talvolta la sua ombra, talvolta i suoi stessi occhi. Nella pellicola si alternano scene di tre tipi: immagini fotografiche; riprese di “momenti d’arte”, ossia creazioni di quadri, istallazioni, registrazioni di eventi, happenings, concerti; interviste ai vari artisti, che rispondono alle domande dei registi, raccontano le loro storie, talvolta discorrono liberamente tra loro. Ne emergono figure umane ai margini, in una realtà difficile, spesso sconosciuta al grande pubblico, tra difficoltà economiche e problemi politici. Vengono definiti così i tratti generali di un mondo, quello dell’arte d’avanguardia, di cui non si parla spesso e di cui il grande pubblico è all’oscuro.

Il mondo dell’arte in realtà non è un tema estraneo al cinema documentario cinese, basta pensare agli albori del genere: “Bumming in Beijing, the last dreamers (liulang Beijing, zuihou mengxiangzhe 流浪北京最后梦想者), di Wu Wenguang  e “Giorni (dongchun de rizi冬春的日子)” di Wang Xiaoshuai sono entrambi film sulla difficile vita degli artisti; Zhang Yuan racconta di Cui Jian e della scena rock in “Beijing bastards (Beijing zazhong 北京杂种)”; Jia Zhangke tratta dell’industria del divertimento e di chi ci lavora in “the world (shijie 世界)” . Torna nuovamente la volontà dell’intellettuale-artista di parlare di se, questa volta però non attraverso  l’auto-narrazione, ma attraverso una terza figura, un personaggio che si pone da intermediario fra artista e pubblico. Nessuno meglio di una persona qualunque, uno di quelli che incontri tutti i giorni per strada, una faccia come tante che, attraverso l’utilizzo di un linguaggio comune, dà voce ad idee nelle quali la maggioranza può riconoscersi. E’ questo il grande pregio di questo film: cercare di superare il più grande problema del genere documentarista, ossia il rapporto con il pubblico.

Il cinema documentarista è un genere che non ha mai ottenuto forti riscontri di pubblico. In Cina esso, nonostante il boom della produzione documentarista negli ultimi anni, rimane al di fuori dei canali ufficiali di produzione e di distribuzione, restando nell’ambito della cinematografia indipendente.  Forse la distanza con il pubblico è attribuibile a difficoltà oggettive di distribuzione. Sembra infatti che, nonostante il recente atteggiamento più morbido degli organismi di censura verso la diffusione e l’utilizzo di nuovi linguaggi comunicativi, ci sia una certa reticenza, quasi un boicottaggio da parte di questi organismi nei confronti di questo genere. Il documentario è ontologicamente un documento visuale, una testimonianza diretta della realtà ed è questa caratteristica che lo rende più predisposto, rispetto ad altri generi, a trattare di tematiche sociali. La spiegazione della reticenza degli organismi statali nella distribuzione di queste pellicole è quindi rintracciabile nella pericolosità della diffusione di un certo tipo di immagini, completamente diverse da quelle ufficialmente propagandate, che potrebbero portare al sorgere di numerosi interrogativi sul reale stato di sviluppo sia economico che sociale del paese in territorio nazionale e all’estero.

Tuttavia un ulteriore motivazione della mancanza di pubblico potrebbe essere nell’approccio sempre piuttosto individualista che i cineasti hanno finora impiegato nelle loro produzioni: il documentario sembra un tipo di cinema prodotto per cinefili. Per rendere il documentario portatore di un messaggio sociale esso deve essere diffuso socialmente e per farlo deve adattare i propri contenuti ad una forma  ed un’estetica che sia facilmente comprensibile al grande pubblico. Questo film compie un grande passo in avanti in questa direzione grazie all’impiego della figura di Lao Jin: egli riesce nell’intento di descrive il mondo dell’arte sperimentale, spesso ritenuto criptico, pazzo, al limite della legalità, in modo da renderlo fruibile anche al grande pubblico e alleggerisce con la sua simpatia i contenuti del film. Il risultato è evidente: il pubblico viene proiettato in una realtà ad esso estranea, impara a conoscerla e allo stesso tempo si diverte.

 

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