Cronaca di una premiazione annunciata

Qualche secolo prima di Cristo, un filosofo e generale cinese, di nome Sunzi, redasse uno dei trattati maggiormente letto e apprezzato di tutti i tempi: l’arte della guerra. In questo testo veniva illustrato come affrontare al meglio l’avversario durante un conflitto bellico, quali fossero le migliori strategie da adottare e come quindi assicurarsi la vittoria.
Scorrendo le pagine, un lettore occidentale potrebbe sentirsi alquanto sorpreso dai concetti espressi dall’abile stratega riguardo le tecniche belliche da lui considerate fruttuose. Sunzi non accennava ad imprese eroiche, guidate da abili generali, o a lampi di genio che potessero far volgere il conflitto a proprio favore. Tutto andava pianificato fin dall’inizio, senza affidarsi a singoli episodi, bisognava fare in modo che la vittoria arrivasse in maniera automatica, quasi naturale. Se lo stratega fosse stato in grado di gestire al meglio le risorse da lui possedute e avesse sfruttato al meglio ogni occasione, il trionfo non si sarebbe fatto attendere.
Potremmo riassumere proprio in questo modo l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura allo scrittore cinese Mo Yan, proprio come Sunzi descriveva un trionfo in battaglia.
Se non fosse stato per l’Accademia Norvegese, probabilmente molte persone non avrebbero nemmeno saputo dell’esistenza del vincitore della prestigiosa onorificenza. Negli anni Mo Yan, pseudonimo di Guan Moye, ha sfornato romanzi dalla trama travolgente, dall’ambientazione incantevole, quasi bucolica, dal linguaggio crudo, che però non hanno mai bucato il muro dell’indifferenza, nonostante avessero tutte le potenzialità per farlo, come è successo ai migliori scrittori nati in Occidente. Lo scrittore non si è mai esposto troppo, ha preferito aspettare e preparare le mosse al meglio, affinché il suo mondo fosse scoperto e venisse riconosciuto il suo valore. Per chi si occupa di Cina, romanzi come Sorgo Rosso, Grande Seno Fianchi Larghi, Il Supplizio Del Legno di Sandalo e raccolte di racconti come L’uomo che allevava i gatti sono pietre miliari del panorama letterario cinese contemporaneo, ma per un lettore comune sono solo uno strumento per sfogare la sete di esotismo, che spesso accompagna chi si interessa d’Oriente. Con ciò non si vuole di certo affermare che coloro che hanno letto questi capolavori non ne abbiano apprezzato la fattura e il valore artistico, ma con molta probabilità queste letture sono state parentesi, magari brevi, all’interno del proprio percorso di lettori o lettrici. Pochi hanno asserito che uno scrittore del genere meritasse più considerazione e maggior impatto sul mondo letterario internazionale.
Per un autore occidentale una così scarsa attenzione verso la propria opera avrebbe significato un fallimento, un motivo di depressione e di perdita dell’ispirazione, essendo noi abituati a risultati immediati o quanto meno a breve termine.
Mo Yan non si è invece fatto scalfire, ha continuato a lavorare egregiamente, sfruttando tutte le risorse che aveva a disposizione, sia personali che appartenenti all’ambiente che lo circondava per partorire opere da incorniciare, sempre di alta qualità. Ha seguito le direttive del grande maestro Sun, impegnandosi duramente evitando di sperare in lampi di genio o successi inaspettati.
A piccoli passi l’universo artistico si è accorto di lui e dell’immenso valore dei suoi lavori, fino ad arrivare all’acclamazione internazionale.
Si è discusso molto sulle ragioni che hanno portato l’accademia a conferirgli questo riconoscimento. La frase che ha accompagnato l’assegnazione recita in questo modo: “Colui che attraverso un realismo allucinatorio fonde insieme folklore, storia ed immaginario contemporaneo”.
In effetti è proprio questo il valore aggiunto dei suoi romanzi. Mo Yan è stato inserito tra gli esponenti della cosiddetta letteratura della ricerca delle radici, corrente letteraria fondata da Han Shaogong nell’immediato post-maoismo, che si prefigge l’obiettivo di recuperare ciò che del mondo rurale e tradizionale cinese può ancora essere di aiuto alla comprensione della realtà contemporanea. Non è un semplice sguardo nostalgico al passato, al contrario, nel mettere in evidenza aspetti appartenenti ad una tradizione, che la rivoluzione culturale aveva cercato di distruggere e di insabbiare, lo scrittore ne sottolinea le contraddizioni e le ovvie limitazioni, ma utilizza tutto ciò come lente di ingrandimento per scovare anche gli anfratti più nascosti della Cina contemporanea, che nonostante il fiorente sviluppo economico rimane ancora un paese agricolo e fortemente legato al territorio.
Probabilmente è proprio per questo che coloro a cui è stato affidato il compito di scegliere il vincitore si sono orientati verso l’opera di Mo Yan. I suoi testi mostrano la vera immagine della Cina, così forzatamente offuscata dalle ombre del regime e della crescita economica, ma che riemerge prepotentemente nelle periferie cinesi o negli stessi Hutong, divenuti una sorta di santuario di ciò che il popolo cinese accecato dagli slogan propagandistici cerca di rinnegare.
Per i suoi accaniti lettori il prestigioso riconoscimento rappresenta nient’altro che una formalità, da tempo sapevano che i suoi romanzi meritavano qualcosa di più dei semplici apprezzamenti della critica letteraria. Nei dialoghi cruenti ed intrisi di un linguaggio diretto e crudo, nei riferimenti alla cultura popolare e nella maestria di rendere tutto così coinvolgente si possono ricercare le ragioni per le quali molti, in particolare coloro che si sono avvicinati allo studio della Cina, si sono appassionati alle sue opere e le hanno consacrate all’altare della gloria letteraria.
I personaggi che ci troviamo di fronte nello sfogliare le pagine sono spesso metafore della contemporaneità cinese, a cavallo tra tradizione e modernità, in lotta continua per l’emancipazione. Non a caso le figure principali sono donne dal carattere marmoreo e dalla personalità d’acciaio, attrici principali di una sfida generazionale, che comporta numerose rinunce e sacrifici, ma che ha come premio finale la rivalutazione dei principi morali da cui la società viene governata.
Fa da sfondo a tutto questo la cittadina di Gaomi, di cui lo scrittore è originario, situata nello Shandong, provincia che ha dato i natali anche a Confucio. In questo caso non si tratta di una semplice coincidenza territoriale, ma anche di un’intima relazione tra i principi morali espressi dal maestro e le implicazioni etiche che ritroviamo nelle trame intrecciate dallo scrittore. La tradizione, le radici culturali della Cina, di cui Confucio si professava difensore, vengono recuperate da Mo Yan e riqualificate come canovaccio da cui far partire una profonda valutazione dei processi di cambiamento ed evoluzione che con tanta fatica la Cina sta intraprendendo.
In ultima analisi potremmo affermare che lo scrittore si attiene scrupolosamente, almeno per alcuni piccoli aspetti, agli insegnamenti portati avanti dalla scuola confuciana. In particolare alla dottrina della rettificazione dei nomi, secondo la quale bisognava comportarsi di conseguenza in base al nome che si era ricevuto in dono.
Lo pseudonimo scelto, Mo Yan, in cinese significa colui che non parla, ed è proprio quello che egli fa, tace, si limita ad osservare la società in cui vive, nella e verso la quale sente forte il sentimento di sradicamento, e provvede ad affidare le sue analisi critiche ai personaggi dei suoi romanzi.
Noi tutti ci auguriamo che un giorno, magari vicino, possa ricominciare a parlare liberamente e a far sentire la sua straordinaria voce.

Leave a comment

Your email address will not be published.


*