Qualche giorno fa si è tenuto a Hong Kong un gay pride: accompagnati dallo slogan “I gay osano amare ( Tongzhi shi gan de同志是敢的)”, uomini e donne hanno sfilato per le strade della città manifestando per la parità dei diritti agli omosessuali. E sulla rete sono arrivati puntuali i commenti dei netizen: il portale Chinasmack propone una carrellata di post direttamente dal mondo dei blog e microblog cinese, un assaggio delle reazioni dell’opinione pubblica in merito. I gay pride, di certo non una novità per la città di Hong Kong, sono avvenuti anche a Pechino e Shanghai a partire dal 2009, ad indicare lo sviluppo nella Cina continentale di un movimento, molto vicino ai Queer Movement del resto del mondo, per la tutela dei diritti dei gay. In un recente reportage per il Fatto Quotidiano Roberta Rei illustra in modo esaustivo sia gli sviluppi del movimento, sia le difficoltà che esso si trova ancora a dover affrontare.
Uno degli attivisti ed esponenti di spicco del movimento per la difesa dei diritti dei gay è un cineasta documentarista, Cui Zi’en, che ha saputo trarre dal suo impegno sociale costante ispirazione per il suo lavoro. Nel 2009 ha realizzato “Queer China Comrade China”, il cui titolo cinese, Zhi Tongzhi 誌同志, marca volutamente il termine oggi usato per tradurre la parola gay,Tongzhi, preso in prestito direttamente dal lessico comunista: il tongzhi è l’affiliato al partito, il compagno, un appellativo che entrò nell’uso comune per indirizzarsi a qualcuno, alla stregua del nostro “Signore/Signora”. Il documentario presenta il Queer Movement cinese, ne rintraccia le origini e ne ripercorre gli ottanta anni di storia, fino alla situazione contemporanea. Il montaggio alterna materiali di archivio a filmati amatoriali, video d’epoca, interviste a personaggi di spicco, fotografie, tutto ciò che Cui Zi’en è riuscito a raccogliere sul tema. Cui Zi’en da un lato sottolinea i successi raggiunti: gli omosessuali hanno saputo crearsi posizioni sociali indipendentemente dalla loro identità sessuale, hanno saputo trasferire la consapevolezza di questa identità da un piano esclusivamente personale a quello sociale, hanno saputo organizzarsi in associazioni per tutelare i propri diritti. D’altro canto parlare di omosessualità nella Cina continentale è ancora oggi qualcosa che è meglio non fare, come dimostrano i commenti dei netizen al gay pride di Hong Kong. Questo ritardo rispetto a Hong Kong e Taiwan, come sostiene Roberta Rei, è motivato da un’incertezza normativa: alla legge, che definiva l’omosessualità prima un reato e poi una malattia mentale, abrogata nel 2001, non ha fatto seguito nessun’altra normativa ufficiale, privando gli omosessuali di un riconoscimento legislativo. Eppure oltre l’incertezza normativa non possono non essere presi in considerazione elementi culturali. Se per il popolo cinese, privo di concetti religiosi come quello del peccato, potrebbe essere idealmente più facile accettare il fenomeno dell’omosessualità, la realtà è ben diversa: ad un credo dogmatico si è sostituita una morale filosofica incentrata sull’uomo e sul suo ruolo nella società. Il confucianesimo intende l’istituzione familiare come una miniatura della società, all’interno della quale l’uomo deve esercitare le proprie virtù, prima tra tutte la pietà filiale, per poi estenderle alla società tutta. Il rapporto uomo-donna nei testi classici confuciani era reso ideograficamente con bie 别, che significa divisione, separazione, ma soprattutto differenziazione. La filosofia confuciana ha fornito la base teorica sulla quale si è costituito e perpetuato per oltre duemila anni il sistema politico e sociale cinese, è ovvio che una tradizione così lunga e radicata può assumere oggi nomi e forme diverse, può essere messa in atto in modi più o meno consapevoli, ma non può sparire nel nulla. Ancora oggi è quasi impensabile per la stragrande maggioranza del popolo cinese non sposarsi e non avere dei figli.
Come viene tradotta la tradizione nella cinematografia? Zhang Yuan张元 fu il primo a trattare di omosessualità nella Cina continentale in East Palace, West Palace (Dong Gong Xi Gong 东宫西宫) un film del 1996. Il regista di Beijing Bastards e The square creò una pellicola che univa il simbolismo e la bellezza estetica della quinta generazione con una scelta tematica coraggiosa, più vicina quelle dei cineasti della generazione successiva. Siamo nel cuore di Pechino, nei bagni pubblici accanto alla Città Proibita (chiamati per l’appunto “Palazzo orientale, palazzo occidentale”), luogo d’incontro degli omosessuali della città. Xiao Shi è un poliziotto di guardia ai bagni, durante un turno di notte cattura un ragazzo e lo porta con sé per interrogarlo, è A Lan, uno scrittore. Egli risponde all’interrogatorio raccontando episodi del suo passato, riproposti attraverso flashback dalle atmosfere sfocate e oniriche, in sottofondo attori intonano arie dell’opera di Pechino. Durante l’interrogatorio la distanza tra i due diminuisce, A Lan indossa abiti femminili e i due si baciano. Il film si conclude con il ragazzo che suggerisce al suo carceriere di smetterla di fare domande agli altri e iniziare ad interrogare se stesso. Il sistema binario dei personaggi esemplifica un discorso di genere, in cui due mondi si confrontano: da un lato c’è il poliziotto, che palesa un’ identità mascolina attraverso la sua prestanza fisica, atteggiamenti rudi e brutali; dall’altro c’è lo scrittore, fisicamente esile, smunto, dai tratti pacati e gentili. Anche il linguaggio e l’uso che ne fanno è diverso: A Lan parla la lingua dei sentimenti, Xiaoshi quella delle convenzioni sociali: “Tu sei malato! (ni you bing! 你有病) gli dice Xiaoshi, riprendendo la credenza comune che l’omosessualità fosse una malattia mentale; A Lan gli risponde: “non sono malato, sono gay, lo amo (wo mei bing, woshi tongxinglian!我没病,我是同性恋,我爱他!)”, come a sottolineare il legame tra l’essere omosessuale e la possibilità di amare realmente; A Lan si dilunga in narrazioni, spiega i suoi stati d’animo e le sue azioni; Xiao Shi per lo più lo ascolta e quando parla si limita a fare domande o a imprecargli contro. Il ruolo sociale di entrambi contribuisce alla formazione della loro identità sessuale: Xiao Shi è il detentore dell’ordine ed è proprio la sua divisa che più di ogni altra cosa gli attribuisce un’ identità di genere; A Lan invece è uno scrittore, un intellettuale, secondo la legge del tempo un folle: il richiamo al pazzo di Lu Xun è inevitabile in quanto entrambi sono considerati devianti da una società che si rivela essere invece priva di sentimenti. Una lettura di genere vuole che l’uomo rappresenti i discorsi di tipo politico, economico, culturale e sociale dominanti in Cina, mentre la donna ne rappresenta le antitesi dirette. Fin qui niente di nuovo, tuttavia in questo film all’antitesi irrisolvibile tra uomo e donna si sostituisce un’immagine nuova: l’uomo, lo Yang, che inizialmente fronteggia lo Yin, finisce per scoprirlo dentro dentro di sé e trasformarsi in esso. Nel film il travestimento di A Lan permette la totale metamorfosi interiore di Xiao Shi, al punto che non c’è più differenziazione uomo/donna, nè differenziazione tra ciò che i due generi implicano, ciò che rimane sullo schermo è solo la persona, l’individuo. Il film non è altro che questo: un racconto di formazione, attraverso la presa di coscienza della propria identità.
Il film ci propone inoltre anche una riflessione sull’identità culturale cinese e sui suoi rapporti con quella omosessuale. In primo luogo è indicativa la scelta della location: il luogo di ritrovo dei gay pechinesi è accanto alla Città Proibita, simbolo della Cina confuciana, e a due passi da Piazza Tian’anmen, simbolo di quella comunista. Se da un lato la comunità omosessuale pechinese sembra sfidare gli emblemi della storia e della tradizione, dall’altro è all’interno di questa che cerca legittimità: nei flashback di A Lan sono presenti numerose arie dei ruoli femminili dell’Opera di Pechino, il teatro canonico cinese, realizzato da soli uomini che interpretano entrambi i sessi. Sull’Opera di Pechino è doveroso ricordare il bellissimo “Addio mia concubina“(Bawang bieji霸王别姬) , nel quale Chen Kaige, oltre a fornirci una panoramica storica dell’arte teatrale nella Cina maoista, affronta il tema dell’identità di genere in un ambito, quello dell’Opera di Pechino, in cui essa era di difficile definizione.
“East Palace, West Palace” fu solo una tra le numerose produzioni cinematografiche e televisive, soprattutto di Hong Kong e Taiwan. Nel 2001 viene realizzato “Lanyu 蓝宇”, del regista originario di Hong Kong Stanley Kwan (Guan Jinpeng 关锦鹏), versione cinematografica di un romanzo online “Una storia di Pechino (Beijing gushi 北京故事)” che racconta l’amore appassionato e tragico tra due uomini. A Taiwan nel 2003 viene realizzata la serie TV “Crystal Boys (Niezi 孽子)”, dall’omonimo romanzo di Bai Xianyong (tradotto in italiano col titolo “Il maestro della notte”). Prodotto a Taiwan nel 1993 ad opera di Ang Lee è il celebre “The Wedding Banquet (Xiyan 喜宴), storia di un omosessuale che vive a Manhattan ma che torna a Taiwan per sposare una donna cinese e realizzare il sogno dei suoi genitori. Il tema dell’omosessualità viene inoltre sfiorato in celebri pellicole come il già citato “Addio mia concubina” di Chen Kaige o “Summer Palace (Yiheyuan 颐和园)” di Lou Ye.
L’esemplificazione sia contenutistica che stilistica in atto nella produzione cinematografica sul tema, a partire da film altamente referenziali come “East Palace, West Palace” fino ai nuovi format come “Queer China Comrade China”, riflette una maggiore libertà nella trattazione di esso, ma soprattutto evidenzia la messa in atto di quella metamorfosi, evocata da Zhang Yuan nel 1996, da un’identità sessuale definita socialmente ad un’identità elaborata in modo individuale e, anche se con ancora qualche remore, condivisibile socialmente.
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