L’immagine della Cina tra censura e innovazione: il caso Buckley e l’apertura a Rifkin

La questione dell’espulsione dalla Cina del giornalista del New York Times Chris Buckley solleva parecchi dubbi riguardo la politica riformista del nuovo Presidente Xi Jinping e getta cattiva luce sull’immagine pubblica del leader cinese.  Tuttavia, recenti accenni ad aperture verso idee visionarie di matrice occidentale da parte del vice-premier Li Keqiang ne costituiscono un interessante contraltare.

Che il cambiamento ai vertici della dirigenza cinese potesse segnare l’inizio di una nuova era di apertura, almeno limitatamente ai temi della comunicazione e dell’informazione, sembrava già sulla carta una mera utopia. Di certo questo evento, l’ultimo di una serie piuttosto lunga, lascia tutti piuttosto perplessi.

Il giornalista del New York Times Chris Buckley continua a ribadire che il mancato rinnovamento del visto, con conseguente “deportazione” dalla Cina continentale, sia una mossa punitiva vera e propria dovuta alla sua inchiesta sui patrimoni di Wen Jiabao e famiglia. Il  Voice of America del 3 gennaio riporta come il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Hua Chunying, insista nello smentire la faccenda, negando che vi sia stata alcuna opposizione al rinnovamento del visto ma non fornendo alcuna spiegazione aggiuntiva.
Questa mancata chiarezza, se non vera e propria ambiguità nelle comunicazioni ufficiali riguardanti l’episodio, solleva molti dubbi sulla soluzione di continuità tra il vecchio e il nuovo corso, e anzi ribadisce una oramai innegabile continuità.

Nell’ottobre scorso infatti, quando il definitivo passaggio di testimoni era ormai imminente, le autorità cinesi hanno oscurato il sito web del New York Times, proprio a causa dello scandalo che coinvolgeva l’allora Primo Ministro Wen Jiabao. Sulla stessa linea ricorderemo il caso, un po’ meno recente (maggio 2012), della giornalista di Al-Jazeera, Melissa Chan, la prima corrispondente, in tredici anni, ad essere espulsa dalla Cina. Si tratta dunque di una dura politica censoria nei riguardi della stampa estera (e in particolare di quella statunitense), che non cessa di sollevare polveroni mediatici e reazioni di “disappunto” da parte dello State Council USA.

L’ombra della censura si proietta evidentemente su un’attività, quella della Stampa statunitense, oramai di chiara rilevanza nello scenario politico globale, influenza (e ingerenza) che infastidisce la superpotenza asiatica. Nel giro di dodici mesi, i giornalisti di Times, Wall Street Journal, Bloomberg News, hanno elevato l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sulla “questione cinese” a un livello senza precedenti (basti pensare alla quantità di articoli comparsi sull’argomento “Shibada”- il XVIII Congresso del Partito Comunista dello scorso novembre – e confrontarla con l’attenzione mediatica rivolta cinque anni prima al medesimo evento).

Nel giugno scorso il giornalismo d’inchiesta di Bloomberg e, di seguito (ottobre), quello del New York Times ha preso di mira le più importanti figure della politica cinese. Come conseguenza i loro siti web sono stati oscurati, i loro giornalisti boicottati e si parla di almeno un caso di minacce di morte.
Se si verificasse quanto sembra oramai inevitabile, Chris Buckley, corrispondente in Cina da dodici anni prima per il Reuters e di recente per il Times, sarebbe il secondo reporter, nel giro di pochi mesi, a venire espulso.

La penetrazione e l’importanza della stampa statunitense in Cina oltre a rappresentare, per quanto appare evidente, una grossa minaccia per l’autorità cinese, hanno contribuito alla comprensione diretta della politica cinese negli USA e a imporre una chiave lettura di questi eventi inquadrati nel più ampio panorama internazionale. E in tutto questo, sostiene Osnos (The New Yorker), gli Stati Uniti si stanno dimostrando piuttosto quieti rispetto al pugno duro delle autorità cinesi e potrebbero (e dovrebbero) agire con ben altra attenzione. Proteggere e promuovere la “reciprocità mediatica”, per esempio.

D’altra parte il lavoro dei media di regime mira a sanare l’immensa distanza che si è creata tra i politici e il popolo, a causa dei grossi scandali legati alla corruzione capillare nel Partito.

Nello scorso dicembre Bloomberg BusinessWeek ha analizzato il ritratto di Li Keqiang, vice-premier della RPC, che la stampa cinese (China.org, Agenzia Xinhua) ha proposto all’opinione pubblica internazionale proprio con questo obiettivo di umanizzare il leader e avvicinarlo alle masse.  Il Bloomberg rilancia e commenta il ritratto di Li Keqiang così come dipinto dal sito China.org: un uomo aperto e pragmatico, colto ed interessato alla letteratura in lingua Inglese, che è in grado di ri-pensare alla luce delle “caratteristiche cinesi”.

Li loves books and has a good memory. Through divergent thinking, he can link the research of many frontier issues with classical Chinese works, according to sources close to him.

Si tratta di una grande novità, giacchè fino a poco fa le vite dei potenti cinesi erano materialmente inaccessibili per il pubblico. Ma il punto di interesse di questa breve biografia è in questa frase:

It was also him who instructed the Development Research Center of the State Council to study the concepts of the “middle-income trap” and “inclusive growth” as proposed by the World Bank and the Asia Development Bank.

In questo passaggio è presente un diretto riferimento al testo di Rifkin “La Terza Rivoluzione Industriale”. Nella citazione, e nella dichiarazione di Li Keqiang di essere addirittura un fan dell’economista statunitense, l’articolo rivela, agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, un’interessante e promettente apertura del vice-premier verso una concezione economica a dir poco “visionaria”.

L’economista, pensatore, scrittore statunitense Jeremy Rifkin è anche presidente della Foundation On Economic Trends, una figura innovativa nell’ambito delle politiche energetiche, ma soprattutto promotore di una nuova idea di economia sostenibile.

Questa mossa mediatica molto sottile ha raggiunto il suo culmine quando questo articolo del Bloomberg BusinessWeek è stato postato in data 2 gennaio dallo stesso Rifkin sul proprio profilo facebook. L’aggiornamento di Rifkin ha avuto circa 200 “like” ed è stato poi condiviso da una settantina di altri utenti. Ciò che colpisce di questo episodio mediatico, a parte l’entusiasmo dell’economista e dei suoi followers (“The implications of this development are far reaching for every country in the world.”), è proprio la scelta di una figura occidentale così controversa e particolare da parte dell’insospettabile leader e dei media cinesi. Tale riferimento genera su facebook commenti ed esternazioni di stupore, mirati ad una timida rivalutazione della figura del vice-premier e forieri di speranza per un possibile nuovo corso politico, economico e sociale.

In conclusione, l’immagine negativa derivante dalla totale (e progressiva) chiusura della Cina nei riguardi del giornalismo d’inchiesta statunitense, dal protezionismo e dalla censura, contrasta con questi tentativi, intermittenti ma, almeno in questo caso, incisivi, di mostrare una guadagnata coscienza del ruolo di superpotenza che traini la politica economica mondiale e che guardi con entusiasmo verso una reale apertura all’innovazione.

Entrambe le prospettive, sia quella di chiusura sia quella di apertura, appaiono tuttavia ancora parziali, ambigue, sospese.  Come tutte le avvisaglie, andranno verificate alla luce dei futuri sviluppi.

 

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