Lettere da Hong Kong

 

Lok Chan è un ragazzo di trent’anni, che vive a Hong Kong. Alla mia richiesta di spiegazioni sui recenti eventi che hanno interessato l’isola, lui ha risposto con una lunga lettera, più simile ad uno sfogo, nella quale è evidente la sua voglia di spiegare nel dettaglio la situazione e di condividerla.

 

“Sono di Hong Kong, sono nato qui, ho fatto le scuole qui, mi sono laureato ed ora lavoro, sempre qui a Hong Kong. Ho lasciato quest’isola solo per motivi turistici e solo per brevi periodi di tempo. Hong Kong è la mia città, eppure negli ultimi cinque anni essa sta andando verso una direzione che a noi abitanti risulta completamente estranea. Le responsabilità sono prevalentemente politiche ed è contro questo tipo di politica che la Rivoluzione degli Ombrelli sta combattendo.

Il problema principale sta nel sistema elettorale vigente, che non ci rappresenta: il Chief Executive viene eletto da un Comitato Elettorale formato da 1200 elettori, raggruppati in 4 sezioni principali e svariate sottosezioni. Molte delle sottosezioni sono legate al mondo degli affari, che fa gli interessi di Pechino, mentre gli oltre 300000 studenti della città non hanno il diritto di votare i loro rappresentati all’interno dell’unica sottosezione dedicata ad una più generica “Education”. L’attuale Chief Executive Leung Chun-ying, in carica dal 1997,è stato votato da questo comitato. Noi cittadini di Hong Kong lo abbiamo soprannominato 689, dal numero dei voti ottenuti, per sottolineare la non rappresentatività dell’elezione. Se qui ad Hong Kong parli del “689” tutti sapranno a chi ti stai riferendo; abbiamo anche lanciato su Istagram l’hashtag in codice #hk689, per diffondere immagini delle proteste ed effettivamente queste immagini hanno superato il muro della censura del mainland China, almeno prima che anche questo social network venisse oscurato del tutto.

In occasione dei festeggiamenti per l’anniversario della restituzione di Hong Kong alla Cina, Pechino ha deliberato che nelle future elezioni del Chief Executive, in calendario per il prossimo 2017, accorderà come promesso il suffragio universale, ma dovremo votare fra un’aura di candidati scelti dal Partito Comunista. La decisione di questo suffragio universale “dalle caratteristiche cinesi” ha spinto gli studenti in piazza: la “Hong Kong Federation of Students” e i ragazzi di “Scholarism” (un gruppo di studenti liceali noti per la protesta contro il “Moral and National Education 德育及国民教育”, una nuova materia introdotta nei programmi didattici dei licei, che insegna l’ideologia socialista e la dittatura del popolo a discapito di ideali democratici e repubblicani) sono stati i promotori della Umbrella Revolution. Insieme agli studenti, ad occupare il cuore di Hong Kong c’è anche il movimento Occupy Central with Love and Peace (和平佔中), un movimento di disobbedienza civile non violenta, fondato nel 2013 da tre docenti universitari (Benny Tai Yiu-ting, Chan Kin-man e il Reverendo Chu Yiu-ming). Corrono voci su presunti legami tra i tre professori e gli Stati Uniti, ma l’idea comune qui a Hong Kong è che poco importa se o chi ci sia alle loro spalle, i tre docenti dimostrano un impegno civico costante e voglia di far del bene per la nostra città. Il nome che si è dato il movimento ricorda Occupy Wall Street e le sue proteste al grido di “we are the 99%” ed è quasi scontato concludere che ci sia effettivamente un trait d’union tra i due movimenti: i ragazzi di Wall Street, non si riconoscevano in quell’1% da loro additato come responsabile della crisi economica attuale, così come noi non ci sentiamo rappresentati in quei 689 voti che hanno reso Leung l’attuale Chief Executive. Tuttavia Occupy Central si pone un obiettivo puramente politico, ossia un “suffragio universale genuino”, senza pronunciarsi su nessun tipo di questione economica né sociale.

Le proteste vanno avanti a fasi alterne: in un primo momento le manifestazioni in piazza erano gestite unicamente dagli studenti e da Occupy Central, la maggior parte della popolazione locale non ne prendeva parte, anzi era infastidita dai disagi provocati. Poi la polizia ha usato i lacrimogeni contro la folla, abbiamo percepito l’evento come uso di violenza su dimostranti pacifici, qualcosa che qui semplicemente non accade. Ciò ha scatenato indignazione, l’indignazione ha spinto anche i più diffidenti a schierarsi a favore dei manifestanti. Dopo due settimane dall’inizio del movimento sulla rete è comparso e si è diffuso in modo virale un video che mostra un pestaggio da parte di alcuni poliziotti ai danni di un manifestante, insieme a foto delle più recenti colluttazioni. Probabilmente la polizia, al centro di un calderone, perde sempre più spesso il controllo della situazione, senza rendersi conto che l’effetto ottenuto è opposto a quello desiderato: al momento circa il 70-80% della popolazione è favorevole alle proteste, resta fuori solo chi trae diretto beneficio dal presente status economico-politico.

Perché l’attuale situazione economica dell’isola è del tutto sfavorevole ai locali: i problemi sono di vario tipo, ma tutti in qualche modo connessi con la sempre più massiccia presenza di turisti provenienti dal mainland China. Esiste per loro un permesso, chiamato Individual visit scheme (自由行 letteralmente visita libera individuale) che permette ai cinesi di venire a Hong Kong per motivi personali. Oggi passeggiare per i quartieri del centro come Mong Kok, Tsim Sha Tsui, Causeway Bay è come passeggiare per Shang’hai o Pechino: la gente del posto è andata via per lasciare spazio ai cinesi del continente e alle attività commerciali dei brand e dei prodotti più in voga tra di loro. Qui comprano di tutto, da oggetti di lusso a immobili, scatenando l’inflazione. Il caso del settore immobiliare è emblematico: una recente impennata dei prezzi per l’acquisto di immobili ha raddoppiato il costo di questi in 2-3 anni, rendendoli inaccessibili alla classe media locale. Esistono poi casi estremi, ma purtroppo sempre più frequenti, in cui il turismo si trasforma in immigrazione illegale: future madri arrivano per un ipotetico viaggio di piacere, ma finiscono col partorire qui, con la conseguenza che il nascituro ha di diritto una carta d’identità di Hong Kong e l’accesso al nostro welfare. Già in passato abbiamo chiesto al governo di trovare un modo per risolvere la questione, che resta tuttora irrisolta.

Se il governo fosse eletto da noi, ci ascolterebbe, opererebbe a nostro favore.

È per questo che la richiesta di un suffragio universale reale è per noi l’unico ombrello che possiamo aprire per proteggerci da un governo asservito al potere di Pechino e la protesta, inizialmente studentesca, si è trasforma in rivolta civile per ottenere il diritto di sovranità sul nostro territorio, perché vogliamo indietro questo posto, che ci appartiene.”

 

La percezione che ho avuto da questo scambio con Lok Chan è che le rivendicazioni politiche emerse durante le proteste sono il frutto di un profondo malcontento della popolazione causato in primo luogo dalla difficile condizione economica locale, ma soprattutto da una minaccia più profonda, che ha il sapore di una questione identitaria: “violence can attack our body, but not our mind”, dice Lok, dando voce ad una generale paura di subire limitazioni a quelle libertà personali che non vengono garantite dal regime di Pechino, ma che gli abitanti di Hong Kong riconoscono in modo orgoglioso come un elemento di distinzione rispetto alla vicina Cina continentale. Forse varrebbe la pena riconoscere la Rivoluzione degli Ombrelli, da molti definita troppo naive, come un fatto storico senza precedenti, diverso dalle proteste di stampo politico a cui siamo abituati da secoli nell’occidente democratico e dalla forte specificità locale.

 

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