Feng Wanyu (Gong Li 功俐) è una donna che trascorre gli anni nell’attesa dell’uomo amato, Lu Yanshi (Chen Daoming 陈道明), un intellettuale dissidente.
Siamo nella Cina della Rivoluzione Culturale, Lu fugge da un campo di lavoro per tornare a casa, si imbatte nella figlia adolescente, promettente ballerina la cui carriera è compromessa dagli errori politici del padre. La fiducia e lo zelo nei confronti del partito portano Dandan a denunciare il padre, che verrà nuovamente incarcerato proprio mentre cerca di incontrare l’amata moglie. Lu verrà riabilitato alla fine della Rivoluzione Culturale, tornerà a casa quando Feng Wanyu sarà ormai affetta da amnesia e non lo riconoscerà.
Trascorreranno insieme il resto della loro vita, ad aspettare il ritorno di un amore che è ormai impossibile riconoscere.
Zhang Yimou torna con un dramma familiare a sfondo storico “Lettere di uno sconosciuto (titolo originale 归来 tornare)”, presentato per la prima volta fuori concorso a Cannes, nelle sale italiane a partire dal 26 marzo. La trama viene sviluppata dal nucleo narrativo del romanzo “Il criminale Lu Yanshi 陆犯焉识”, di Yan Geling 严歌苓, scrittrice evidentemente amata dal regista: è suo anche “I 13 fiori di Nanchino 金陆十三钗”, romanzo da cui Zhang Yimou ha tratto l’omonimo film (conosciuto col titolo inglese “Flowers of war”). La differenza, spiega il regista, sta nel lo sviluppo della trama: mentre il romanzo pone l’accento sulla fase dell’innamoramento della coppia, collocata negli anni ’50-’60, un periodo troppo complesso storicamente per poter essere affrontato senza problemi con la censura, Zhang ha preferito invece approfondire gli effetti di questi anni sulla vita delle persone. Ispirato da un tema importante e dal ritorno della sua musa Gong Li, Zhang torna ad essere un gran narratore e scrive uno dei suoi film tradizionali, senza tempo né spazio.
L’impronta del maestro è inconfondibile: cromatismi e giochi di luci-ombre danno plasticità alle scene e richiamano alla memoria le sue pellicole degli anni 80-90 (basta ricordare Sorgo Rosso e Judou), i giochi della macchina da presa che fanno della prima parte del film una sorta di poliziesco, tra momenti di suspance ed inseguimenti rimandano ai suoi film agli inizi del millennio (da Keep Cool al recente Flowers of War). Quando, ad un tratto, subentra il dramma psicologico: gli ambienti si fanno chiusi e scuri, i primi piani aumentano, così come le lacrime. Il film si flette: dalla grande storia ripiega sulla storia del singolo, sull’esperienza umana. Il dolore viene ammaestrato, si fa straziante ma mai scomposto, resta silenzioso ma scava nella psiche umana fino a contorcerla, si trasforma in oblio. E’ questa la più bella intuizione del regista: rendere tangibile quell’oblio che ha avvolto le vittime della rivoluzione culturale durante tutta la sua durata e a cui la stessa rivoluzione è stata a sua volta condannata dalla storia ufficiale. I personaggi incarnano perfettamente lo spirito degli anni in cui vivono: combattivi all’inizio del film, dopo la fine della rivoluzione culturale, diventano remissivi, accettano rassegnati un destino che gli viene gettato addosso, preferiscono dimenticare. La dimenticanza, indicata dal regista come espediente per “essere più creativi” e raggirare la censura, è l’unico aspetto che ha il retrogusto di denuncia al regime, tuttavia la rassegnazione con la quale viene accettata riflette un atteggiamento passivo del paese nei confronti del suo passato. Forse Zhang Yimou era semplicemente interessato a fare un film che parlasse di amore e delle sofferenze che esso comporta e il cui unico obiettivo fosse di commuovere, come aveva già fatto precedentemente con “Under the Hawthorn tree (山楂树之恋 2007).
Tuttavia decidere di denunciare in modo così velato un argomento dal peso storico e sociale così importante rende questo film una pellicola dalle potenzialità di analisi e critica sociali enormi, ma quasi completamente mancate.
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