Il termine 涂鸦 (tuya), letteralmente “zampe di gallina”, definisce i “graffiti” ( da noi meglio conosciuti come “murales”), pratica artistica diffusa in tutto il mondo e componente fondamentale della cultura urbana contemporanea.
La Graffiti Art si è diffusa in Cina non prima della fine degli anni ’90. Il contesto urbano delle megalopoli cinesi sembra incarnare un’immensa tela sulla quale si intersecano, oramai da circa vent’anni, i colori della gioventù cinese di strada.
Ma per i writer cinesi si tratta ancora di quella ribellione che sta alla base della spinta creativa che portò alla nascita della street art in occidente? Quali gli elementi di continuità e quali invece le peculiarità del fenomeno in Cina? La componente vandalica e illegale di questa forma espressiva rimane intatta anche agli occhi della società cinese?
Il sito web Art Space China ha intervistato, a breve distanza, due importanti elementi della scena artistica cinese. Si tratta di “Mels”, artista statunitense trapiantato a Shanghai, e Ray (Rui), un giovane, cinese, che invece “imbratta” Wuhan.
A Shanghai, Mels, oltre a dirigere uno studio grafico (Beast Mode Studio), coltiva con passione la sua attività di graffiti-artist insieme alla sua crew, composta dagli stessi membri dello studio. Molto soddisfatto dalla scena artistica cinese, che reputa estremamente vitale e “libera”, l’artista e grafico statunitense lavora a Shanghai già da qualche anno e racconta del rapporto tra la street art e grandi città. Così come nella New York negli anni ’70-’80 gli artisti, famelici, girovagavano tra le strade della Grande Mela alla ricerca di mura da riempre di colore e trovavano la vecchia metro, da allora luogo simbolo di questa forma di sottocultura urbana, a Shanghai la fitta rete di canali, il sistema fluviale, offre una location perfetta, ancora non debitamente sfruttata, per una futura esplosione di colori.
Il confronto tra gli Stati Uniti e la Cina, che ancora una volta assume le tinte forti della politica, si dimostra sorprendentemente sbilanciato a favore della Cina.
Il discorso primario si innesta, come spesso accade nei discorsi sull’arte, sul problema del controllo e della censura.
In questo caso però, paradossalmente, in un paese come la Cina, famoso e criticatissimo per il potente Firewall e per l’onnipresente censura sulle informazioni/comunicazioni, il peculiare sistema legale (contraddistinto da sterminate piccole falle) favorisce questa forma d’arte. La vita di tutti i giorni, la vita nelle città, sembra spesso regolata da caos e anarchia: agli occhi di un occidentale, la vita a Beijing o a Shanghai appare molto più libera e sregolata rispetto a quella che per esempio si può condurre degli Stati Uniti. Mels, che proviene da una realtà che reputa asfissiante, tratteggia in poche parole il ruolo della polizia negli USA e i costanti abusi di potere su writer e artisti di strada. Ne viene fuori un quadro rigido, demoralizzante in confronto alla flessibilità del clima urbano cinese. La sregolatezza, il caos (dal traffico alla vita notturna, dall’urbanizzazione selvaggia al delirio distruttivo) se, da un lato, possono far apparire queste città invivibili, concedono invece largo spazio alla proliferazione delle forme di sottocultura urbana, quali, ad esempio, la street-art. Mels sottolinea con veemenza come nulla in Cina sia davvero illegale, a patto che non si tratti di politica.
Specialmente per quanto riguarda i graffiti non esiste una vera legislazione a riguardo, nè un vero e proprio concetto di vandalismo urbano. La polizia può agire a seconda del momento, dell’umore, imponendo all’artista colto sul fatto di pagare una multa salata o, al contrario, semplicemente dimostrando curiosità e chiedendogli il significato della sua opera.
Quello che viene qui messo in discussione è la libertà di espressione e su questo la politica dei due paesi è completamente differente. Ma si tratta, in Cina, di una libertà palpabile ma in un certo senso puramente illusoria: la street art è innocua perché non necessariamente politica e, qualora varcasse quella soglia, allora sarebbe completamente illegale, censurabile e punibile anche con l’ergastolo.
Eppure, all’interno di questi limiti, lo scenario della graffiti art cinese è quanto mai roseo, secondo Mels, e la Cina mira ad un vero e proprio sorpasso della scena statunitense, non solo in virtù della suddetta libertà, ma anche la fecondità dell’ambiente culturale e degli scambi inter-personali.
Il fattore umano incide particolarmente nella valutazione positiva della urban culture cinese. Gli artisti sono prima di tutto amici.
Non esiste una vera e propria “territorialità” infatti, né una guerra di strada come, ad esempio, negli USA: gli artisti si scambiano stimoli e perfino i materiali in una larga comunità in cui vige la più assoluta libertà espressiva. Tutti i membri di questa comunità allargata si conoscono e, non essendoci alcun pericolo per loro o per la loro attività, utilizzano i propri nomi d’arte senza timore e i loro veri nomi senza discrezione. Sono tutti su Weibo, la piattaforma di microblogging più importante in Cina, e attraverso questo mezzo si organizzano e comunicano in tempo reale, condividono i propri lavori caricando le immagini in diretta e si scambiano opinioni in merito. Ed è proprio qui che si gioca l’asso nella manica della community cinese: la condivisione è l’humus dell’arte e la libertà, in questo caso, sembra rendere fertile il terreno della creazione.
A parte alcune eccezioni, come ad esempio giovani che, forse spaventati, timidi o troppo abituati ad un certo stile di vita “al chiuso”, che si limitano a studiare attraverso video di youku come “fare” graffiti e producono mere copie di lavori altrui ovviamente prive di alcuna scintilla artistica, molti giovani hanno appreso dalla strada sia la tecnica che un proprio stile. E’ il caso di Ray, Graffiti Ray.
Ray, il “graffitaro” di Wuhan, si dimostra sottolinea anch’egli una fondamentale differenza tra grandi città come Shanghai e Beijing, centro nevralgico della cultura cinese contemporanea ma forse per questo più soggette a certe forme di controllo culturale, e città sicuramente immense, ma di certo periferiche rispetto il flusso mainstream, Wuhan e Changsha.
Sono queste le città migliori, gli “hot spot” della graffiti art cinese. Per due motivazioni principali.
La prima, è una questione urbanistica ed estetica: c’è molto più spazio. C’è molta più attività di costruzione e presenza di strutture sulle quali vi è poco o nessun controllo. Non vi è la stessa preoccupazione che vi può essere in una città in cui il traffico di turisti stranieri possa dare pressione al governo centrale. La pressione si concretizza in controllo e in un forzato rispetto di standard di costruzione/demolizione che altrimenti non sarebbero così tenuti in considerazione. E infatti in città come Changsha e, soprattutto, Wuhan, i graffiti hanno la possibilità di rimanere “esposti” più a lungo e fornire da ispirazione per nuove generazioni di artisti.
La seconda è una questione prevalentemente culturale. Wuhan è stata in tempi recentissimi una vera e propria fucina di artisti, la culla del punk rock cinese e sicuramente un centro nevralgico della cultura underground. Molti però, non appena raggiungono la fama, preferiscono tentare fortuna in città più ricche e forse più mature per questo tipo di innovazioni, Shanghai e Beijing.
Ray ricorda che, già dal 2001, la JEJ Crew (una delle prime in Cina) aveva iniziato a lavorare in città, ispirando tantissimi giovani, tra i quali anche lo stesso Ray, il quale invece avrebbe iniziato a dedicarsi alla street art solo nel 2008, dopo essersi laureato in
Wuhan è una città ideale per l’arte di strada e Ray non intende muoversi verso altri lidi, città più aperte a scambi internazionali o a situazioni commercialmente più favorevoli. Anche se non nega la possibilità di sfruttare la sua arte a fini commerciali, sembra instintivamente restio a farlo: sporcare la propria passione con i soldi equivarrebbe a svuotarla, a perdere l’attitudine alla strada, che è poi l’origine di questa particolare forma d’arte.
Il colore più acceso monopolizza i lavori (visionabili anche sul suo blog) di questo giovane artista, rivelando, come uno squarcio sui muri di Wuhan, una Wuhan alternativa, un mondo brillante, energico e raffinato.
Una curiosità: la lingua preferita dagli street artist è di gran lunga l’Inglese. Al secondo posto il Giapponese. Perchè? Lo rivela Ray: i caratteri cinesi sono troppo complessi e totalmente inadatti a questo tipo di pratica artistica, sembrerebbe, dice, come fare esercizio di calligrafia sulle mura della città. E questo non è proprio quello che questi giovani intendono fare.
IN COPERTINA
Un lavoro di Ray e gli Hubest,
Source http://027ray.blog.163.com/blog/static/23660988201210196545225/
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