In occasione del conclave appena conclusosi, appare doveroso analizzare i componenti dell’assemblea cardinalizia deputata all’elezione del successore di Pietro al soglio pontificio. In particolare, la lente di ingrandimento dovrebbe soffermarsi sulle personalità che per la prima volta hanno varcato la soglia della Cappella Sistina, come il cardinale cinese, proveniente da Hong Kong, John Tong Hon.
Personalità eminente del mondo cattolico dell’ex colonia britannica, Hon è il primissimo porporato di nazionalità cinese ad aver partecipato all’elezione del Papa. Nato nel 1939 ed educato alla fede cristiana dalla madre e dai missionari di Maryknoll, fu ordinato sacerdote da Paolo VI nel 1966, trent’anni dopo venne nominano vescovo, e dopo aver guidato la diocesi di Hong Kong venne consacrato cardinale da Benedetto XVI poco prima della sua decisione di lasciare la guida della Chiesa Cattolica. La sua convocazione nella Città del Vaticano per il nobile compito assegnato ad egli e ai suoi pari ha acceso i riflettori sull’annosa controversia politica, riguardante la sovranità religiosa, tra la Repubblica popolare e l’enclave pontificia, che dura ormai da secoli, seppur con diverse modalità a seconda del periodo che consideriamo.
I primi contrasti tra Santa Sede e Pechino iniziarono poco dopo la penetrazione dei primi missionari gesuiti, intorno al XVI secolo. L’oggetto della contesa furono i riti appartenenti alla tradizione confuciana, che gli evangelizzatori più integerrimi, in particolare domenicani, credevano non fossero compatibili con le cerimonie cristiane. La disputa fu talmente aspra da provocare numerose scissioni anche all’interno della comunità gesuita, la quale si divise in due gruppi animati da convinzioni differenti. Gli imperatori della dinastia Qing, inizialmente favorevoli alla diffusione del cristianesimo, si rivelarono successivamente, in particolare a partire dall’imperatore Yongzhen, ostili alle continue vessazioni che provenivano, sotto forma di bolle, dalla Santa Sede. L’intera vicenda è passata alla storia come “Disputa sui riti” che venne parzialmente risolta solo in tempi recenti, da Pio XII che approvò formalmente la partecipazione da parte dei cinesi convertiti a riti di origine confuciana.
Dopo la fondazione della Repubblica popolare da parte di Mao Zedong, la religione venne relegata nell’ambito di quelle sovrastrutture non solo non necessarie alla realizzazione dello stato socialista, ma anche pericolose per il loro potere reazionario. Da qui nacque quindi l’idea di uno stato ateo, ancor più che laico, che non dava ascolto a nessun tipo di confessione religiosa, compreso quindi il cristianesimo.
Con la morte di Mao e la caduta definitiva della Banda dei Quattro, il controllo dello stato passò nelle mani di Deng Xiaoping, il quale è noto soprattutto per la politica delle porte aperte, che segnò non solo un alleggerimento, seppur di poco conto, delle misure restrittive inaugurate dal regime maoista, ma anche un segnale di ripresa dei rapporti con le potenze occidentali. Da questo momento in poi, la Cina dovette prendere seriamente in considerazione anche la questione riguardante le confessioni religiose, che la Rivoluzione Culturale evidentemente non aveva del tutto estirpato. Si decise quindi, anche per emulare e mettersi al pari con i paesi occidentali, di istituzionalizzare la religione, di qualunque matrice essa fosse. Nel caso del cristianesimo, in particolare quello cattolico, fu creata una vera e propria chiesa di Stato, gestita dall’Associazione Patriottica che di fatto esautorava l’autorità del Papa nella nomina dei cardinali e come capo supremo della chiesa cattolica. In sostanza si cercò di attuare lo stesso tipo di meccanismo che era stato concepito successivamente alla conquista del Tibet, al cui capo di stato, il Dalai Lama, venne tolto qualunque potere, addirittura esiliandolo e decidendo di arrogarsi il diritto di scegliere il successore della guida spirituale, normalmente designato dai monaci tibetani stessi.
Naturalmente la reazione del Vaticano non si fece attendere; il Papa condannava l’arroganza dei quadri cinesi e decise di non riconoscere i cardinali da lui non ordinati.
Da quel momento in poi in Cina si vennero a costituire due chiese cattoliche, una afferente alle direttive di partito e sotto il controllo di esso, e l’altra, naturalmente clandestina, che invece riconosceva come unico capo supremo il successore di Pietro.
Non è un caso quindi che l’esponente della comunità cattolica cinese provenga da Hong Kong; infatti, come è noto sia a chi si occupa di Cina sia a coloro che la guardano dall’esterno, la città è stata fino al 1997 sotto controllo della Gran Bretagna, alla quale era stata affidata dopo il trattato di Nanchino del 1842. La corona inglese garantiva una certa libertà di culto alla porzione di popolazione cinese posta sotto la sua giurisdizione, e quando la madrepatria iniziò a dare cenno di sopportare con difficoltà la crescente presenza di cristiani, soprattutto cattolici, all’interno del tessuto sociale della Terra di Mezzo, il governo inglese riuscì a schermare gli attacchi e a salvaguardare la città dalle persecuzioni che sarebbero seguite agli attestati di disistima per la religione del messia, che strariparono con tutta la loro veemenza sia durante gli ultimi anni dell’impero, sia dopo la proclamazione della Repubblica popolare. Tutto ciò quindi non frenò l’ascesa del Cristianesimo ad Hong Kong.
Anche quando la Repubblica popolare riacquistò la sovranità sulla colonia britannica, nel 1997, la situazione restò pressoché invariata, grazie anche all’instaurazione di una particolare politica di gestione del territorio, inaugurata da Deng Xiaoping, contrassegnata dallo slogan “Una Cina, due sistemi”. Questo tipo di iniziativa di politica interna prevedeva la cessione di una certa libertà amministrativa ed economica alle ex colonie, quindi Hong Kong e Macao, in cambio di una rinuncia alla sovranità, da parte di queste ultime, in materia di politica estera e di difesa. Si decise di perpetrare quest’ordinamento per cinquant’anni, facendo iniziare il conteggio dalla data dell’ effettivo ritorno dei territori sotto la giurisdizione cinese.
La questione riguardante la sovranità religiosa può essere letta utilizzando diverse chiavi. Se ci soffermiamo ad analizzarla solo superficialmente, potremmo risolvere il dilemma riconducendolo a controversie puramente legate al potere della religione di animare le masse e quindi all’eventuale pericolosità, avvertita dalle autorità di Pechino, insita in essa.
Naturalmente questo aspetto, in un’analisi decisamente più approfondita, non può essere trascurato, ma ad esso vanno aggiunti numerosi elementi che vanno a scavare nelle radici profonde della società cinese. A questo proposito è necessario individuare tutti quegli aspetti collegati alla legittimazione dei capi di stato e alla abitudine secolarizzata di assorbire culture appartenenti a paesi diversi da parte della Cina.
Sebbene vi sia stato un cambio radicale al vertice della macchina statale cinese con il passaggio dal sistema imperiale alla Repubblica popolare, alcuni meccanismi sono rimasti pressoché invariati, nonostante siano state modificate le modalità con cui essi avvengono.
Nella Cina imperiale, per esempio, era necessario da parte dell’imperatore dimostrare la propria legittimità a governare, soprattutto tramite azioni di governo che potessero dare credito al carisma e alla capacità di gestione del sovrano. Una di queste riguardava i rapporti che l’impero intratteneva con gli altri stati, in particolare con quelli posti sotto l’egida del sinocentrismo. Il Figlio del Cielo doveva dimostrare di essere in grado di esportare i principi che governavano la società cinese e di avere voce in capitolo nelle questioni riguardanti controversie politiche che si verificavano negli stati confinanti. È chiaro quindi che era necessario essere in possesso di una forte autorità, che faceva rima con un accentramento di tutti i poteri nelle mani della corte. Ecco quindi che la controversia con la Chiesa cattolica, se fosse stata risolta con una cessione di una parte della sovranità, quella religiosa, ad un’autorità esterna, quale il papa, avrebbe creato non pochi problemi al sovrano. Tutt’oggi questi meccanismi, seppur con modalità diverse, sono ancora ben radicati nel tessuto sociale; basti pensare alle problematiche con il Tibet e con gli uiguri.
Un altro elemento da individuare nella nostra analisi è la tendenza della società cinese di assorbire, in maniera del tutto centripeta, i popoli e le culture diverse, tentando in maniera anche piuttosto pressante di sinizzare chiunque si introducesse nella Terra di Mezzo.
Una religione straniera, come quella cristiana cattolica, che richiede un’adesione piuttosto forte a dettami proveniente dall’esterno, non poteva non incontrare numerose difficoltà all’interno di un tessuto sociale così complesso e determinato da certi meccanismi. Gli stessi gesuiti si accorsero di questa incompatibilità e cercarono infatti di risolverla concedendo ai cinesi convertiti di partecipare ai riti di origine confuciana, quasi a voler creare un sincretismo che avrebbe comunque garantito nuove figure di rilievo tra le file dei seguaci del cristianesimo. Non dimentichiamoci infatti che i missionari cercavano di parlare all’elite dei funzionari e non alla massa. In questo potremmo trovare un altro motivo del rifiuto di accettare così facilmente i principi del cattolicesimo, in quanto veniva difficilmente capito e digerito dalla stragrande maggioranza dei cittadini cinesi, che alla caduta dell’impero divenne il principale interlocutore dei leader che guidarono la rivoluzione comunista e che successivamente avrebbero preso tra le mani le redini del paese.
Il cattolicesimo, così come la gran parte delle confessioni religiose d’origine ebraica, è inoltre fortemente pervasivo e ingerente in tutte le attività sociali e politiche delle società nelle quali si è sviluppato. Non a caso anche in occidente si è avvertita la necessità di generare stati laici che potessero garantire libertà e diritti inalienabili a qualunque cittadino, a prescindere dalla propria fede religiosa. Questa esigenza è molto più evidente in Cina, che ha una popolazione storicamente abituata a non occuparsi delle faccende relative agli dei, così come Confucio tentava di spiegare nelle sue argomentazioni. La spiritualità cinese si è sempre manifestata in maniera diversa, basti pensare che il mondo celeste veniva quasi paragonato a quello terreno, in una sorta di identità concettuale, mentre oggi è quasi relegato ad una dimensione esclusivamente privata.
Tutto ciò rende quindi la controversia tra Cina e Vaticano molto complessa ed intricata, a causa di differenze culturali e antropologiche particolarmente evidenti, che richiedono un dialogo molto più intenso, che difficilmente potrà continuare a imperniarsi su posizioni di narcisismo culturale. Ci si augura che il nuovo pontefice e le autorità di Pechino possano trovare punti di incontro partendo da compromessi bilaterali.
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