Love for life

Qualche tempo fa mi sono imbattuta nella foto di un ragazzo che reggeva tra le mani il cartello “Sono un malato di AIDS” e lo portava in giro per il quartiere di Xidan, Pechino: nel giorno del Qixi, (equivalente del nostro  San Valentino), cercava un abbraccio, un segnale d’affetto.  E mi è venuto in mente un film di un paio di anni fa dal titolo Zui Ai 最爱 , in inglese Love for Life, un film sul virus dell’HIV e sulla sua diffusione in territorio cinese. La regia è di Gu Changwei 顾长卫, cameramen in pratica di tutti i film cult della V generazione (da Sorgo rosso, e Judou di Zhang Yimou a Life on a string, Addio mia concubina e Il re dei bambini di Chen Kaige). Anche il cast è super-stellato:  Zhang Ziyi (colei che ha vestito i panni della giovane protagonista in Hero, La foresta dei pugnali volanti, 2046, per citarne solo alcuni) nel ruolo della protagonista Shang Qinqin e Aaron Kwok, famosa popstar cantonese, nei panni di Zhang Deyi, il protagonista maschile.

La trama è molto semplice: siamo nella metà degli anni ’90 in un villaggio, da qualche parte nello Henan. Il “virus della febbre” (nel film si parla dell’AIDS come rebing 热病) si diffonde a macchia d’olio, la popolazione comincia a morire  – come foglie che cadono dagli alberi – dice la voce narrante, un ragazzino di 12 anni infetto dal virus, che muore all’inizio della pellicola e diventa la voce narrante delle vicende del villaggio. La causa scatenante della diffusione del virus, nel film come nella realtà, era la pratica, allora piuttosto in voga, di donar sangue per racimolare qualche soldo, anche solo per comprarsi uno shampoo di marca, come racconta  Qinqin. I malati vengono così disconosciuti dalle loro famiglie e confinati in una vecchia scuola, isolati dal resto del villaggio. E mentre ogni mattina si contano le morti silenziose, esplode la passione tra Qinqin e Deyi, entrambi precedentemente sposati e in seguito ripudiati dai rispettivi consorti a causa della loro malattia, i quali decidono di allontanarsi dal gruppo di malati e dalla comunità tutta per vivere insieme la loro storia d’amore, fino alla morte.

Oltre alla pellicola è disponibile online anche un documentario, dal titolo Insieme (Zai yiqi 在一起),  di  Zhao Liang. Il documentario è legato al film: Zhao usa il ragazzo che muore all’inizio della pellicola per iniziare la sua ricerca per ospedali, case di cura, chatroom, forum, dei malati di AIDS: molti non vogliono farsi riprendere, per la maggioranza di loro mostrare la propria faccia significherebbe perderla per sempre, altri rispondono alle semplici domande del regista (come ti sei infettato, l’hai detto a qualcuno, com’è cambiata la tua vita dopo la malattia). Viene fuori che alcuni attori del film, a partire dallo stesso ragazzino, non sono dei professionisti ma malati. E l’idea che il film nasca dalla collaborazione tra grandi dello star system cinese e sieropositivi  è sicuramente di grande impatto mediatico per il pubblico. Ovviamente il film e il documentario hanno prerogative diverse, il primo è narrativo, il secondo informativo; il primo opera su livello emozionale, il secondo su quello razionale; tuttavia è nella visione combinata di entrambi, nell’unione dei due format che il messaggio acquista forza e completezza.

All’uscita nelle sale del film, nel 2011, ciò che colpì i media fu che finalmente un film, tra l’altro di produzione statale, raccontava una tragedia umanitaria che per più di un decennio era stata taciuta, censurata dai mass media. Il motivo per il quale questo film mi è rimasto impresso è invece nella sua poeticità. L’AIDS viene in genere inevitabilmente associato al sesso, soprattutto omosessuale, soprattutto non protetto, con tutti i giudizi e pregiudizi etici che una società attribuisce ad esso. Il film non si limita solo a sfatare la banale equazione AIDS=vita sessuale promiscua (tutti i personaggi del film lo contraggono per futili motivi, senza niente a che vedere con la loro vita sessuale), anzi usa proprio la passione sessuale per esorcizzare la paura di una malattia ignota e di una morte incombente. Qinqin e Deyi si separano dai rispettivi coniugi, rompono le convenzioni sociali ancora molto presenti e pesanti nella Cina contadina degli anni ’90, si fanno beffe degli atteggiamenti sprezzanti e ostili nei loro confronti e si rinchiudono in un loro mondo felice, fatto di sesso e malattia, amore e morte.

Tutto ciò mi ha fatto pensare a un romanzetto (nel senso di breve) letto durante il periodo dell’università, nel quale l’autore Yan Lianke, usava allo stesso modo la metafora del sesso: la moglie di un ufficiale dell’ Esercito Popolare intrattiene una relazione adulterina con un attendente. Entrambi perfetti comunisti, ligi al proprio dovere nei confronti della patria, si perdono in questa passione che li porta a distruggere i simboli dell’ideologia socialista con foga direttamente proporzionale al crescere della loro passione. Come se il sesso abbia il potere di infondere coraggio e talvolta sfrontatezza tali da sfidare le convenzioni sociali o la fede politica, fino a diventare una vera e propria potenza liberatoria, verso la riscoperta della semplicità e dell’essenzialità della vita umana.

Per chi ne avesse voglia il libro è in libreria, tradotto in italiano col titolo Servire il popolo (wei renmin fuwu 为人民服务), disponibile anche in versione cinese sulla rete. Personalmente ho sempre pensato che una traduzione, per quanto buona, si lasci sempre alle spalle qualcosa di non detto, di intraducibile e che, al contrario, i cinesi sembra siano fisicamente fatti apposta per essere immortalati e raccontati da una macchina da presa.

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